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Negli ultimi giorni del 2019, i telegiornali e la carta stampata hanno posto in prima pagina le difficoltà che la città di Venezia ha dovuto affrontare a causa dei numerosi eventi di acqua alta nella sua laguna, con i relativi disagi e danni per la popolazione del capoluogo veneto.
Il fenomeno dell’acqua alta, che da secoli tormenta e rende unica Venezia, è oramai una situazione di normale amministrazione per i cittadini che, a calosce inserite, girano per la loro città facendo slalom, sulle affollate passerelle, tra i numerosi turisti estasiati dalla particolarità dell’evento.
Ma i danni e i disagi creati dall’acqua alta sono sempre più numerosi e difficili da affrontare. Le soluzioni ipotizzate per risolvere questo problema secolare sono state varie, più o meno valide e più o meno attuabili.
Tra queste, la soluzione che è stata effettivamente scelta per la protezione della laguna è il famoso impianto a paratoie mobili, comunemente conosciuto come Mose (Modulo Sperimentale Elettromeccanico): una struttura progettata negli anni ’80 e che, da allora, ancora non vede la realizzazione definitiva.
Mose: quando un accento toglie la capacità di aprire le acque
Siamo sicuri che una tecnologia pensata quasi 40 anni fa e mai realizzata completamente (per varie ragioni, tra cui lo sperpero di denaro pubblico), possa essere considerata come soluzione definitiva alla sempre più problematica convivenza di Venezia con l’acqua della sua laguna?
Abbiamo la certezza che il Mose, terminato e messo in funzione, riesca effettivamente a limitare l’acqua alta senza incidere sull’ecosistema laguna e, quindi, senza comportare ulteriori problematiche?
È opportuno continuare a investire sul Mose per terminarne la costruzione oppure è necessario valutare altre soluzioni ingegneristiche?
Come funziona il Mose?
Proviamo a capire come stanno le cose.
Il professor Marco Mariani del Centro di Idrodinamica e Morfodinamica Lagunare dell’Università di Padova afferma che: “La possibilità di chiudere temporaneamente le bocche che connettono la laguna di Venezia e l’Adriatico è certamente l’unica difesa efficace dalle acque alte. […]
L’efficacia di un sistema che realizza tale chiusura è legata alla possibilità di prevedere in anticipo i livelli dell’acqua alle bocche, poiché l’azionamento di paratoie mobili richiede tempi tecnici minimi di esecuzione che possono arrivare ad alcune ore.
L’attivazione del Mose dovrebbe avvenire quando è previsto che il livello dell’Adriatico fuori dalle bocche di porto di Venezia raggiunga i 110 cm rispetto a Punta della Salute (il riferimento locale rispetto al quale vengono misurati i livelli marini a Venezia, che attualmente si trova all’incirca 36 cm più in basso rispetto all’attuale livello medio del mare). […]
Si tratta di un’attivazione di difficile previsione in quanto è funzione del contributo meteorologico, ossia delle differenze di pressione tra basso e alto Adriatico e della direzione del vento che potrebbe spingere l’acqua verso il Golfo di Venezia.
Inoltre l’affidabilità del sistema Mose appare di difficile valutazione essendo una soluzione con pochi precedenti e, quindi, con poche informazioni provenienti da esperienze analoghe.
Soluzioni maggiormente collaudate erano disponibili al momento della decisione (come le paratoie realizzate a protezione del porto di Rotterdam) ma la scelta costruttiva del Mose è stata figlia di una dialettica aspra, a livello locale e nazionale, la quale ha fatto sì che prevalessero le preoccupazioni riguardanti l’impatto paesaggistico dell’opera rispetto all’aspetto ingegneristico. […]
Da qui la scelta di adottare delle paratoie che, una volta in funzione, non fossero comunque visibili perché sommerse.”
Anche Carlo Giupponi, docente di Economia dell’Ambiente all’Università Ca’ Foscari di Venezia, manifesta alcune perplessità sul Mose: “È un progetto caratterizzato da rigidità, concepito in un’altra fase e ora difficilmente si adatta al cambiamento in corso. […]
Oltretutto, i lavori effettuati per la realizzazione del Mose hanno a loro volta provocato un mutamento sulle maree che interessano il Lido di Venezia: ora sono più rapide, salgono in maniera veloce e le correnti sono più forti. Tutto questo rende molto più difficile fare quelle previsioni che servono alla città per prepararsi e correre ai ripari.”
Sulla stessa linea di pensiero troviamo il professore emerito dell’ICEA (Ingegneria Civile Edile Ambientale dell’Università di Padova) Luigi D’Alpaos: “C’è un problema che è stato sottovalutato in fase progettuale ed è legato al comportamento della laguna quando le bocche di porto sono chiuse, con riferimento all’azione del vento.
Quest’ultima, a bocche aperte, è mitigata da una circolazione secondaria che sposta masse d’acqua attraverso le tre bocche di Lido, di Malamocco e di Chioggia.
Qualora tutte le bocche fossero chiuse, questa circolazione non si realizzerebbe più, con la conseguenza che quando spira vento di bora c’è un dislivello che penalizza Chioggia, quando spira vento di scirocco c’è un dislivello che penalizza Venezia, Murano, Burano e Torcello.”
Inoltre, il professor D’Alpaos aggiunge altre riflessioni, relative a diversi aspetti della vita lagunare: “Quando fu presentato il progetto Mose, la finalità era quella di difendere i centri storici delle acque alte, favorire l’ambiente lagunare e salvaguardare la portualità.
Questi sono obiettivi che richiedono interventi in contrapposizione tra loro. […] Tutti e tre insieme non si conciliano, non sono compatibili. […] Se si considerano le maree del periodo 2000-2018 gli interventi del Mose sarebbero stati 350 all’anno, con le chiusure che non avrebbero riguardato il singolo evento di marea perché ci sono state delle situazioni in cui andava anticipata la chiusura di parecchi cicli di marea: per fronteggiare il colmo di una marea che si presenta oggi potrei dover chiudere anche con un anticipo di 5 o 6 giorni. […]
I problemi che ne derivano sono ambientali (scarsa ossigenazione del bacino lagunare), per l’ingresso delle navi, per l’approvvigionamento della città, dell’industria a Marghera e per la portualità in generale”.
Insomma, le perplessità sono tante e a queste si aggiunge un costo immenso dell’opera: quasi 6 miliardi di Euro per la realizzazione e oltre 100 milioni all’anno per la manutenzione di un sistema che già in fase di costruzione ha dato segni di corrosione.
Soluzioni alternative o fantaingegneria
Ma ci sono delle valide alternative?
Una soluzione potrebbe essere stata fornita dall’Università di Padova che, insieme all’Istituto di Scienze Marine del CNR, ha ipotizzato di iniettare acqua marina nel sottosuolo così da “sollevare” e salvaguardare il capoluogo veneto.
È stato stabilito che una corretta regolazione delle pressioni di iniezione consentirebbe un uniforme innalzamento di Venezia. L’elevazione non sarebbe immediata: si stima che per un aumento di 30 cm sarebbero necessari circa 10 anni di costante pompaggio con iniezioni da 12 pozzi e ben 150 milioni di metri cubi d’acqua immessi nel sottosuolo, a profondità di 600/1000 metri.
Per quanto stravagante possa sembrare l’idea, tale tecnica è stata già utilizzata negli anni ’70 in California per fermare la subsidenza di Long beach, provocata dalle estrazioni petrolifere.
A questo punto c’è da chiedersi se riusciremo a far vedere ai nostri figli la Venezia che conosciamo o saremo costretti a parlarne come se fosse Atlantide.